domenica 26 aprile 2009

Sbirri


Se vi sedete al posto del guidatore in un'automobile in corsa, e rifiutate di prendere in mano il volante, siete responsabili degli incidenti che provocherete?
E' quello che mi sono chiesto quando mi è capitato di recensire Sbirri, il film con Raoul Bova, diretto da Roberto Burchielli. La proiezione per la stampa era organizzata nella sede di Medusa Film di Roma. Di fronte alla reception, tre televisori muti passavano il Tg 4, Dragon Ball, e Beautiful. La
scomparsa della realtà.

La
Medusa Film, tanto per intenderci, è controllata dal gruppo Mediaset. L'attuale presidente, Carlo Rossella, ex-direttore del Tg 5, è uno di quelli che hanno le idee chiare: ex-comunista, poi filo-berlusconiano, ora potremmo ritrovarcelo a capo delle fiction Rai. Che danno fa Dragon Ball all'opinione pubblica di un Paese? Probabilmente non è un danno enorme, si tratta solo di un ragazzotto un po' vivace che spara palle infuocate. Ma osservare le tre reti Mediaset trasmettere all'unisono mi ha fatto immaginare per un istante tutte quelle immagini che avrebbero potuto attraversare lo schermo, ma sono state spodestate.

Per capire i danni provocati da un
monopolio mediatico, bisogna immaginare quello che perdiamo, non quello che vediamo. Quando guardate il Tg 4, non pensate a Emilio Fede: ma ad un giornalista serio, indipendente, preparato, che scrive cronaca sportiva in un giornale di provincia. Basta sedersi al posto del conducente, e impedire agli altri di guidare.

Arrivo al film: Sbirri non fa particolari danni, non c'è nessun messaggio satanico, nè inni neonazisti. Anzi, c'era pure un'idea buona, da qualche parte. Il problema è che se un film come questo occupa
gli spazi di mercato riservati al documentario, chi ci racconterà mai il resto della realtà?

Vi lascio alla mia recensione, pubblicata qui:



Trama.

Il noto giornalista d'assalto Matteo Gatti, sconvolto dalla morte per ecstasy del figlio sedicenne (Marco), si mimetizza nella squadra antidroga della polizia di Milano e realizza in incognito un reportage sul fenomeno degli stupefacenti.

Recensione.

Il silenzio è d'oro, ma in Sbirri ce n'è troppo poco. Si contano sulle dita di una mano, infatti, i momenti in cui possiamo riposare e prendere fiato. L'abbondanza di stimoli in questo caso, non è sinonimo di adrenalina, ritmo, suspense. E' piuttosto un eccesso, uno strafare continuo che finisce per soffocare chi guarda.

Partiamo dalla colonna sonora: il principale tema musicale del film è ripetuto decine e decine di volte. E se pure non è niente male al primo ascolto, perde sicuramente di interesse quando ne conosciamo a memoria ogni singolo passaggio. La macchina da presa non trova pace: ogni volta che due personaggi si stringono in un abbraccio, l'operatore sente la necessità di girare intorno a loro, con un effetto "Carramba che sorpresa!".

Matteo e Sveva raramente tacciono. Per esprimere il loro dolore, oltre a piangere, accasciarsi, gridare, commentano ad alta voce i propri sentimenti. Ad un certo punto lo fanno, ognuno per conto loro, seduti, guardando negli occhi gli spettatori: è forse il momento più stridente del film, che strizza l'occhio al confessionale del "Grande Fratello". Ma c'era bisogno di questi eccessi per raccontare una storia già di per sé molto toccante? L'immagine di una madre e di un padre che d'improvviso perdono il figlio cosa se ne fa di commenti patetici e musica a ripetizione? Non è già di per sé un pugno nello stomaco? Anche perché tutto il buono del film finisce stritolato.

Ed è un peccato, perché
Sbirri è un film con un'anima coraggiosa. Intanto perché fa qualcosa di innovativo all'interno del panorama cinematografico italiano: costruisce una storia di finzione attorno ad immagini documentaristiche. Le inquadrature notturne per le strade di Milano che vedono all'opera la polizia antidroga sono infatti prese dal vero. Spacciatori e compratori in carne e ossa, colti con le mani nel sacco, rispondono alle pressanti domande sul perché si sono invischiati nella droga ad una così giovane età.

Ed è sicuramente apprezzabile anche il coraggio e la dedizione di Raoul Bova, che si è esposto in prima persona come attore e produttore di questo progetto.
Ma l'esecuzione del film non rende giustizia all'idea, e si esce dalla visione di Sbirri con l'amaro in bocca per l'occasione perduta.

Valerio

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